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Un'intervista a cuore aperto e a tutto campo quella rilasciata da Moise Kean a Sport Week, per tornare alle radici del suo percorso, non proprio in discesa, molto antecedente al suo sbarco a Firenze:

"Moise è la traduzione francese di Mosè. Mia mamma ci teneva molto a chiamarmi così. E’ un nome particolare, unico. Se mi sento così? Sì, sono una persona molto particolare. Ho un modo di vivere tutto mio. I miei amici sanno come sono fatto, con loro posso essere me stesso. Mi esprimo in maniera diretta, sono molto silenzioso e osservo tanto chi c’è di fronte e attorno a me.

Io padre? A me è mancata la figura paterna quindi con mio figlio cerco di costruire un rapporto solido e mi impegno a non fargli mancare niente. E’ importante che lui sappia fin da ora che io ci sarò sempre, per aiutarlo e dargli un consiglio. Il mondo è crudele, perciò più un padre è vicino al figlio, meglio è. La madre? Io e lei non viviamo insieme. Del rapporto con mio padre non voglio parlare.

Adulti a 13 anni…

Già responsabilità a 13 anni? E’ vero. Ero cresciuto soprattutto per strada con gli amici, poi mi sono trasferito a Torino. Sono andato via per giocare a calcio e le responsabilità derivavano dal fatto che fossi consapevole che dal mio futuro dipendesse anche quello della famiglia. Mia mamma lavorava tanto, mio fratello era lontano e io avevo la mia famiglia sulle spalle, come è tutt’ora.

Nei primi mesi mi è mancata la mamma. Però capivo che era il momento di rimboccarsi le maniche e tornare con qualcosa anche per lei. Ero tanto per strada. Mamma faceva i turni in ospedale, a volte tornava la sera e io stavo ancora fuori, girando tra i tornei di calcio notturni. Avevo la ritirata alle dieci ma volevo divertirmi e davanti agli occhi avevo solo il pallone. In fondo ero un ragazzo come tutti gli altri.

Mia madre non voleva lasciarmi andare perché preferiva che studiassi. I dirigenti della Juve le dissero che nel convitto dove sarei andato a stare, avrei pure studiato. Faticarono un po’ ma alla fine riuscirono a convincerla. Se ho studiato? Sì… (ride ndr). Abbastanza. Però ho smesso prima del diploma, non ci stavo più dentro: a 16 anni ho esordito in A.

La luce dopo il buio

Momenti brutti? Ne ho avuti tanti. Anche belli ma sono stati di più quelli brutti. L’ultimo è legato all’infortunio che ha condizionato quasi tutta la scorsa stagione e mi ha impedito di dare il 100%, è stato un momento buio. Come l’ho superato? La famiglia mi è stata vicina, ma arriva sempre un momento in cui ti ritrovi da solo davanti allo specchio. Mi sentivo triste perché le cose che volevo fare non mi riuscivano. Nella mia testa visualizzavo il tiro, il dribbling, la finta, poi non riuscivo a metterli in pratica e pensavo: ‘Cazzo, non ci riesco’. Ma sapevo che dopo il buio torna la luce e quindi anche per me sarebbe arrivato il giorno in cui avrei dimostrato a tutti chi sono e di cosa sono capace".

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