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Cinquant’anni. L'ex giocatore della Fiorentina, Massimo Orlando, li festeggia oggi. E ci concede questa chiacchierata, che non vuole essere né commovente, né definitiva, ma vera. Una vita piena di episodi che, nel bene e nel male, ha dovuto affrontare. Ed è anche l’occasione, magari, di rimettere qualche cosa a posto. Come in una libreria. Lui parla come sempre a ruota libera. Come si fa tra amici, come ha scelto di fare per noi di Fiorentinanews.com.

Orlando, siamo a cinquanta.
"Sì. E potevano essere 80 o 120 per come ho vissuto. E’ stata una vita dove ne sono successe di tutti i colori. Nel mezzo la soddisfazione di essere diventato un calciatore, famoso, affermato, anche bello da vedersi diceva qualcuno. E la sofferenza per aver smesso presto, troppo presto. Il resto sono conseguenze”.

Ci spieghi meglio...
“Un paese piccolo, una famiglia umile. La gioia per un ragazzo di provincia di avercela fatta, praticamente senza accorgersene, di scappare dalla routine. Ero il mito di tutti, il ragazzino che ce l’aveva fatta. Ma anche quello che provocava invidie, gelosie. Più tardi ho capito tutto questo, ma non solo nel calcio è così. Anche nella vita. E io la vita me la sto sempre godendo e soltanto adesso sto capendo molte cose”.

E poi?
“E poi c’è una cosa che non rifarei: quella scivolata contro il Bari che mi è costata la carriera. Il primo infortunio, poi otto operazioni. La sogno ancora di notte, come Roby sogna il rigore sbagliato ai Mondiali. Mi sveglio sudato, ma non c’è niente da fare. Chissà come sarebbe andata senza quella scivolata, nella vita quando una domanda ti martella continuamente nella testa è dura superare certe cose. Devi essere forte e io non lo ero. E forse non lo sono nemmeno oggi”.

Cosa le mancava? A distanza di anni è riuscito a capirlo?
“Si torna lì, all’inizio. Ero giovane, sono venuto via di casa che ero un ragazzino. Bello, ma impegnativo. Ero solo. Poi i primi soldi, il successo, tutti i giornali che parlano di te. Tante persone che usano l’amicizia per fregarti i soldi, persone che magari leggeranno anche questa intervista. Io che li rincorrevo per riaverli, senza riuscirci. Chissà se oggi sono più felici loro o io. Chissà se si vergognano. Io usavo il denaro anche per sentirmi meno solo, ma sono stato ingenuo. Sono un buono, o un fesso, usate pure voi la parola che vi piace di più. Però c’è una cosa che mi dà noia…”

Quale?
“Sentire ancora oggi persone che parlano di me senza conoscermi. Sentir dire che ho smesso perché non avevo voglia, non avevo testa. Nessuno aveva più voglia di me, chiedetelo ai miei compagni. Nessuno correva come me. Poi ero particolare, amavo gli eccessi, dicevo quello che pensavo, ma facevo spogliatoio come pochi altri. E il calcio era tutta la mia vita. Mi hanno fermato gli infortuni, solo quelli. Pochi, come me, amavano quello che facevano. Nel calcio si romanza troppo e io ho dato troppo filo a chi voleva tirarlo”.

Il calcio le ha più dato o più tolto?
“Chissà. Successi, fama, mi ha fatto girare il mondo, giocare davanti ad ottantamila persone. Adrenalina. Però poi mi ha anche tolto. Perché dal momento in cui ho smesso, non mi sono dato pace. E ho inseguito quello che forse non potevo più raggiungere. Vivi in un mondo stellato, dorato, dove tutto accade da solo, non devi fare niente. E quando la luce si spenge, se non hai le spalle larghe, se sei più debole, è terribile. A me è mancato avere persone giuste che mi consigliassero cose giuste, avere persone perbene accanto. La mia famiglia non poteva aiutarmi più di tanto. Le ho trovate più avanti, e me le tengo strette”.

Quando è diventato grande?
“Tardi. Un calciatore deve diventare grande a ventidue-ventitré anni. Quando nella vita normale puoi benissimo aspettare i trenta, trentacinque. Io non ci sono riuscito”.

Cosa avrebbe fatto nella vita se non avesse giocato a pallone?
“Credo una vita normale, nel mio paese. Come hanno fatto i miei fratelli. Con qualche eccesso in più, magari, ma quella è questione di carattere. Niente di particolare però, mi sarei visto come una persona come tante”.

Quanti amici ha? Nel calcio e fuori.
“Tanti. E non lo dico così per dire. Sento l’affetto della gente. E io a tutti gli amici che ho do tutto. Sono fatto così. Nel calcio anche. Quella Fiorentina è stata casa mia. Quello spogliatoio con Baiano, Bigica, Bruno, Iachini. Lo spogliatoio è la cosa che mi è mancata di più nella vita, quell’aria lì, quei rapporti lì. Che bei ricordi”.

Il rapporto umano invece più doloroso nel calcio?
“Beh, ha un nome e un cognome: Claudio Ranieri. Mi ha umiliato, ha usato la sua forza e il suo potere contro i miei problemi e le mie debolezze. Non c’entra il pallone qui, ma la qualità delle persone. Non l’ho mai digerita: mi ha schiacciato, umanamente parlando, contento nel farlo. Per me conta la trasparenza, la sincerità. Lui è stato l’opposto. Il calcio, il suo lavoro, gli ha dato ragione. Ma conta anche altro nella vita”.

Cosa ha fatto in tutti questi anni e cosa vorrebbe fare nei prossimi cinquanta?
“Ho provato tante cose. Ho fatto un po' di tutto. Mi sono rimboccato le maniche, ho lavorato anche nei ristoranti. Da proprietario e da dipendente. Io non ho paura della vita e dei saliscendi che si devono affrontare. Mi sono sempre rimboccato le maniche e me le rimboccherò ancora. Sogno e spero di aprire una attività con qualche amico vero, con mio fratello, di fare qualcosa che mi restituisca serenità, perché sono un lavoratore".

Con il calcio ha chiuso?
“Ho provato, ma non ci sono portato ed evidentemente non sono stato apprezzato. E’ un mondo dove per forza di cose devi scendere a compromessi, cambiare il tuo carattere, bluffare. Non ho voglia e non mi riesce. Giocare era la cosa che sapevo fare bene”.

Nella vita privata c’è qualcosa che cancellerebbe?
“Sognavo una famiglia. Una moglie e una figlia. Vittoria è bellissima ed è il mio gioiello. Con mia moglie è andata male e sicuramente speravo in un finale diverso. Ma anche in questo caso i problemi sono cominciati sempre dallo stesso momento: sempre da quella scivolata. I problemi, la testa, la depressione. Da quel giorno ho sempre preso gli antidepressivi, ho sempre vissuto tra alti e bassi. Il mio più grande rammarico è proprio quello, quella scivolata mi ha condizionato tutta la vita. In campo e fuori".

E la fotografia di una partita, di un gol?
“La fotografia è Firenze. La mia vita è stata qui. Un fiume d’amore. Il mio primo gol, contro il Genoa, appena entrato in campo. Anche se i grifoni pareggiarono quella partita al novantaquattresimo, e lì forse dovevo capire che non sarebbe stata una carriera fortunatissima”.

Oggi cosa fa?
“Sono tornato a lavorare in Radio, con Radio Rai. La Champions, la Serie A. Sono tornato bambino, il mio secondo amore. Per me la radio è tutto, io che amo guidare la macchina, fare tanti chilometri, sono un divoratore di radio. Ecco tornare a raccontare quello che oggi fanno in campo, dove c’ero io, è un ritorno al passato. Bello”.

Come si sente oggi a 50 anni? 
“Ho l’idea di sentirmi comunque fortunato. Io sono così. Vivo di alti e bassi, ma quando spengo la luce so di aver toccato il cielo con un dito. E di aver fatto tutto, davvero tutto, quello che volevo. Questa è la verità: mi sono divertito, ho fatto divertire, ho cose da raccontare, ho tanti amici che mi vogliono bene. Oggi mi gusto molto di più tutto questo e festeggio questo giorno con maggiore serenità. Provando a dimenticare, senza riuscirci, quella scivolata che, ancora oggi conoscendomi, proverei comunque a fare. Perché sono così”.


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