La resa dei conti e la spartizione dei meriti: le tre finali restano ma non tutti hanno portato lo stesso mattoncino alla causa
Nello sport di squadra, si sa, si vince e si perde tutti. O almeno questo recita uno slogan piuttosto qualunquista, atto a tutelare tutte le parti in gioco, nel sacro nome del gruppo e della ‘famiglia’ (altro concetto allargato un po' forzatamente a quello di club calcistico). Della serie: i panni sporchi, nel caso, si lavano in casa.
E allora via al classico snocciolo di luoghi comuni, sul fatto che i buoni risultati partano dal presidente e via a scendere a dirigenti, allenatori e calciatori. Così come quelli brutti vadano a salire dal campo fino alla scrivania del patron. In una sorta di maxi calderone, dove ci finisce un po' di tutto, indistintamente.
E' il caso quindi di contestualizzare quanto accaduto in questi tre anni di era Commisso. A ‘bilancio’ ci sono tre finali, tutte più o meno accomunate da una certa agevolazione del tabellone. Ma ci sono anche rose tutto fuorché folgoranti, che barcamenandosi le hanno raggiunte, pur senza ricevere quel sostegno che la prospettiva di un trofeo avrebbe dovuto suggerire a chi di dovere. Lo scorso gennaio ne è l'emblema, ma non certo l'unico esempio: perché allora sul banco degli imputati dovrebbero salirci tutti allo stesso modo? Il fiasco della finale attribuisce colpe sacrosante a Italiano e ai calciatori ma a monte c'è chi avrebbe potuto mettere il proprio mattoncino anche nella costruzione della rosa e non solo in quel di Bagno a Ripoli.